Giuseppe Lumia

L’ANNO NUOVO TRA QUELLO CHE VERRÀ E QUELLO CHE DESIDERIAMO SUL PIANO ECONOMICO

NIENTE DI BUONO È IN PREVISIONE. BISOGNA RIPARTIRE DA UN NUOVO APPROCCIO KEYNESIANO PER SOSTENERE E RILANCIARE IL REDDITO DEL CETO MEDIO-BASSO E INVESTIRE SUGLI STATI UNITI D’EUROPA.


Idee e Progetti, di Giuseppe Lumia

Le previsioni economiche del 2025 per l’Europa e per l’Italia non lasciano purtroppo ben sperare. Si profilano bassi ritmi di crescita interni, senza contare le incognite dell’economia globale, l’impetuosa immissione nei processi produttivi dell’intelligenza artificiale, le incertezze derivanti dagli scenari di guerra in Ucraina e in Medio Oriente, i possibili dazi e l’aumento della spesa militare imposti dalle scelte di Trump senza trascurare le variabili delle scelte della Russia sull’energia, le capacità competitive della Cina e delle necessità di cui si fanno carico i Paesi Brics.

Si corre il rischio di aggravare le carenze strutturali e inceppare l’andamento quotidiano della vita economica, già del tutto insufficiente a fronteggiare le sfide economiche in corso da diversi anni. Neanche il positivo e massiccio investimento prodotto dal “Next Generation Eu” ha la forza di rompere le catene della bassa crescita, dell’aumento delle disuguaglianze e delle povertà, della mancanza di incisività e prospettive concrete per la green economy.

Rimanere fermi ed aspettare passivamente il ciclo spontaneo della ripresa è illusorio e dannoso.

Siamo in sostanza in una fase storica di cambiamento epocale che richiede un piglio di governo inedito e di portata economica senza precedenti.

La stessa crisi latente e quella reale vanno pertanto trasformate in risorsa potente di cambiamento.

L’Europa e l’Italia hanno la necessità più che mai di aprire una prospettiva di rilievo internazionale: in particolare, hanno bisogno di un ritmo di crescita impetuoso e capace di superare la soglia del tre per cento almeno per un quinquennio in modo da tenere insieme politiche di rientro e risanamento del deficit pubblico e politiche di investimento e di sviluppo sostenibile.

Riflettiamo allora su alcuni spunti per incentivare la politica e i decisori vari a cambiare passo e velocemente.

1) L’export tradizionale trainato dal radicato settore manifatturiero, sebbene rimanga un motore solido e collaudato di sviluppo, non è tuttavia in grado di far decollare ad alti livelli il PIL italiano ed europeo. Se ben incentivato e finanziato, può al massimo contribuire per l’1-1,5 per cento di crescita. Non è sicuramente poco, ma anche per questo ragguardevole obiettivo abbiamo bisogno di cospicui investimenti sulla innovazione tecnologica green, sulla riduzione dei costi energetici, in linea con le fonti rinnovabili, e su una reale riduzione dei diversi vincoli burocratici e fiscali.

2) La centralità delle politiche economiche per il 2025 e per gli anni successivi va data ad uno stimolo consistente della domanda interna per incrementare gradualmente i consumi privati e collettivi. Solo così è realizzabile il superamento della soglia del 3 per cento di PIL per alcuni anni. È risaputo che tale obiettivo può raggiungersi grazie soprattutto al miglioramento del reddito del ceto medio e di quello – che non va trascurato – più basso. Allora bisogna aumentare via via i redditi da lavoro ben oltre il loro rapporto con il livello di inflazione, che certamente è da mantenere sempre sotto controllo. È necessario attuare un coraggioso “combinato disposto”: definire un livello di salario minimo entro un range europeo, riprendere il reddito di cittadinanza sempre su scala europea collegandolo virtuosamente e strutturalmente all’ampliamento del mercato del lavoro, e soprattutto aumentare in modo consistente i salari e gli stipendi, a partire dai Paesi come il nostro che stanno molto più indietro sino a raggiungere in pochi anni un livello comune per tutta l’Europa. Per far decollare i consumi e la domanda interna, si richiede parallelamente un aumento della produttività sia industriale che dei servizi e una riduzione dei costi strutturali della vita quotidiana a carico dei cittadini, come i mutui per le case, i costi per i consumi energetici e quelli per il welfare, cioè scuola, sanità e politiche sociali.

Senza tergiversare, va compreso bene che il futuro economico dell’Europa dipende dal benessere reale del ceto medio e dall’uscita concreta dalla povertà del ceto basso. Bisogna allora riequilibrare in modo consistente la distribuzione del reddito, a partire dal recupero fiscale degli extraprofitti da destinare agli investimenti a sostegno della produttività delle imprese e del reddito dei lavoratori e da una efficace e intelligente lotta all’elusione ed evasione fiscale. Anche i tassi d’interesse che le banche offrono per le case nuove ed ecosostenibili e per le ristrutturazioni che utilizzano le tecnologie green devono rimanere entro la soglia dell’1 per cento. Bisogna anche prevedere una rinegoziazione dei vecchi mutui delle prime e seconde case entro il limite dell’1,5 per cento. I risparmi privati vanno inoltre indirizzati, attraverso incentivi fiscali adeguati, verso le attività di welfare e di produzione green. Gli stessi extraprofitti maturati nell’ultimo triennio devono essere in sostanza il volano per realizzare il piano europeo sul benessere del ceto medio e del ceto basso.

Il new deal europeo ha bisogno pertanto di frenare sulle politiche neoliberiste e di entrare in una fase sistematica neokeynesiana, creativa e rigorosa, innovatrice e ben radicata.

Per raggiungere questi obiettivi, c’è bisogno però di una classe dirigente adeguata, che sappia comprendere la portata delle ambiziose sfide che abbiamo davanti e sia in grado di puntare progressivamente sugli Stati Uniti d’Europa, con tutto quello che ciò comporta non solo sul piano economico ma anche istituzionale e sociale.